“Ricordando Giovanni Noferi…”

Il calvario coraggioso

In un mondo in cui sembra che le scelte individuali e collettive siano guidate dall’interesse, dall’egoismo, dalla superficialità dal “prima io”, mi chiedo cosa ci possano dire o insegnare persone come Giovanni Noferi, appartenenti all’Associazione ex Internati, che hanno fatto una scelta forte, meditata e coraggiosa: preferire la durezza, la sofferenza, la solitudine, l’annientamento della prigionia, piuttosto di venir meno ai loro principi e ai loro valori. Hanno sperimentato sulla loro pelle, una volta rientrati in patria, l’indifferenza e l’ostilità, la convinzione dell’inutilità del loro sacrificio vissuto durante il “calvario coraggioso ripetuto” cui si erano consapevolmente sottoposti. Tutto questo ci insegna che dobbiamo ripensare al nostro essere, a chi siamo, a dove vogliamo andare, che tipo di società vogliamo costruire, su quali valori costruiamo la nostra vita. Loro, che avrebbero avuto tutte le ragioni per essere arrabbiati con il mondo, ci hanno insegnato sì a non piegare la testa, a difendere la propria dignità, ma ci hanno insegnato anche il senso del perdono, dell’impegno verso gli altri, della gioia di vivere, della democrazia, del modo di essere comunità, di essere una nazione e ci hanno insegnato a ricercare sempre la pace. Questi valori li hanno trasmessi a noi tutti e, soprattutto agli studenti, andando nelle scuole con grandissimo entusiasmo, perché i giovani imparassero, facessero propri e vivessero i valori fondanti della nostra Costituzione e del vivere insieme. Pertanto, se parlare di loro e riflettere sulla loro scelta aiuterà noi a capire che sofferenza, dolore e sacrificio non devono indebolirsi nei nostri pensieri e nel nostro agire quotidiano perché solidarietà, fratellanza, riflessione, approfondimento delle problematiche e pace devono essere alla base del nostro convivere e della nostra politica, allora il ricordo di queste persone e la loro testimonianza avranno un grande significato. Per tutti noi che li abbiamo stimati ed amati, sarà un ulteriore motivo di orgoglio.

Ezio Mondini Sindaco di Darfo Boario Terme

 

Il dramma degli IMI

Ho conosciuto Giovanni Noferi, a Capo di Ponte, nell’Istituto che presiedevo, alcuni anni fa. Mi ricordo molto bene di come fosse stato coinvolgente nel narrare la sua triste esperienza e come i ragazzi l’avessero seguito con grande interesse. Sull’onda della sua testimonianza sono andato a rileggermi I sommersi e i salvati di Primo Levi. L’avevo letto molti anni fa appena uscito. Si tratta di due esperienze molto diverse poiché il grande scrittore torinese fu spedito in un campo di sterminio, Noferi in un campo di prigionia. Il trattamento però, nella vita quotidiana, non era molto diverso. Ora narrare queste storie non è facile. I testimoni sono ormai quasi tutti scomparsi. Ma non è solo quello il problema. È che il pubblico tende a rifiutare quegli avvenimenti per la loro stessa enormità. Molti che hanno vissuto quelle esperienze non amavano parlarne proprio per questo: il rischio di non essere creduti, il rischio di essere fraintesi, il rischio di non riuscire a rendere, se non pallidamente, il totale delirio nel quale erano stati immersi. Ma c’è un’altra realtà che va considerata. Molti testimoni non ne volevano parlare perché si sentivano complici. Il 90% o forse più degli internati militari in campi di prigionia tedeschi avevano applaudito all’ingresso in guerra dell’Italia. Avevano inneggiato all’Impero. Non avevano capito nulla del regime dittatoriale nemmeno quando aveva approvato le leggi razziali. Erano partiti convinti della follia del “Vincere e vinceremo”. Noferi veniva da famiglia antifascista fin dall’ origine. È per questo che racconta. Altri hanno preferito tacere addirittura all’interno delle loro famiglie. In effetti non è facile raccontare la perversione umana spinta all’estremo. Per varie ragioni. Una di queste è la complicità e quindi la vergogna. Molti collaborarono con le autorità tedesche. Anche con le più criminali. Molti kapò erano ebrei. Se non ci fu collaborazione diretta ci fu quella che Levi chiama la zona grigia. Una silenziosa accondiscendenza dovuta ad opportunismo. «[...] Non era semplice la rete dei rapporti umani all’ interno del Lager. Non era riducibile ai due blocchi delle vittime e dei persecutori. In chi legge (o scrive) oggi la storia dei Lager è evidente la tendenza, anzi il bisogno, di dividere il male dal bene [...] L’ingresso in Lager era invece un urto per la sorpresa che portava con sé. Il mondo in cui ci si sentiva precipitati era sì terribile, ma anche indecifrabile [...] Si entrava sperando almeno nella solidarietà dei compagni di sventura, ma gli alleati sperati, salvo casi speciali, non c’erano; c’erano invece mille monadi sigillate, e fra queste una lotta disperata, nascosta e continua». Se si è appartenuti alla zona grigia, alla zona della complicità indiretta, non ci sono le condizioni per narrare a meno che si abbia il coraggio spregiudicato della verità anche contro se stessi. Narrano a fatica le anime più cristalline. Noferi tra questi. Racconta in tutti i particolari Arturo Frizza nei suoi volumi La terra delle rape, recentemente pubblicato dal Circolo Ghislandi. Parlano perché sono stati degli eroi nel non essere stati assorbiti dalla attraentissima “zona grigia”. La zona nella quale vive chi ha come unico scopo quello di salvarsi la pelle anche a scapi
to di qualche suo compagno. Dividersi il pane quando la sofferenza della fame ti attanaglia è eroismo, ma pochi sono capaci di tanto. Allora è meglio cadere nell’oblio o nel mutismo, oppure falsare la storia come è accaduto e accade al popolo tedesco o a chi ha aderito al fascismo anche dopo l’8 settembre 1943. Non si racconta anche, pur non avendo alle spalle connivenze, anzi opposizione dura ai totalitarismi, perché dopo il primo schiaffo sul viso si è incrinata per sempre la fiducia nell’umanità. È la storia di Nino che ho raccontato nel libro Nino Maffezzoni confinato a Ponza. L’ingiustizia crudele e ripetuta distrugge la speranza. Eppure è necessario ricordare anche a costo di essere fraintesi. È necessario anche solo per il fatto che il razzismo imperversa di nuovo anche oggi e molta gente a parole si professa cristiana o comunista e poi quando entra nella cabina elettorale vota i partiti razzisti. Primo Levi nel libro citato parla dell’esperienza a volte deludente nelle scuole e degli stereotipi che circolano e non aiutano a capire. Non è facile parlare ai ragazzi e non è facile sconfiggere la “zona grigia” che costituisce la principale nemica della civiltà e della democrazia. Meglio un avversario ben identificato che un grigio. L’opera nelle scuole ha senso e ha effetto proprio se colpisce lì. Giovanni Noferi ci ha provato. Ora che lui non c’è più, il testimone passa inevitabilmente a chi spera di poter continuare il suo cammino sapendo che la strada non è in discesa. Tutt’altro.

Giancarlo Maculotti Presidente del Circolo Culturale Ghislandi

 

“Noi queste cose non le sappiamo”

Questa è l’affermazione di un’insegnante del liceo di Lovere di fronte alle risposte per le spiegazioni richieste a Giovanni Noferi sul perché una sua nipote avesse parlato dei campi concentramento in un suo elaborato. «Un paese che ignora il proprio ieri, non può avere un domani», scrisse il famoso giornalista Indro Montanelli. Più incisiva e diretta, per esperienza personale, la senatrice a vita Liliana Segre nel suo intervento in occasione del voto di fiducia in Senato al nuovo governo il 5 giugno scorso. «[...] si dovrebbe dare idealmente la parola a quei tanti che, a differenza di me, non sono tornati dai campi di sterminio, che sono stati uccisi per la sola colpa di essere nati, che non hanno tomba, che sono cenere nel vento. Salvarli dall’oblio non significa soltanto onorare un debito storico verso quei nostri concittadini di allora, ma anche aiutare gli Italiani di oggi a respingere la tentazione dell’indifferenza verso le ingiustizie e le sofferenze che ci circondano. A non anestetizzare le coscienze, a essere più vigili, più avvertiti della responsabilità che ciascuno ha verso gli altri». Riscontro in queste osservazioni, in queste riflessioni la conferma della scelta positiva fatta dal Museo della Resistenza di rivolgere principalmente al mondo scolastico, quindi alle nuove generazioni, l’attenzione prioritaria per “fare memoria” degli avvenimenti che hanno caratterizzato la Resistenza partigiana, intesa nella molteplicità delle sue manifestazioni e delle sue caratteristiche.
“Fare memoria” a fronte dell’indifferenza denunciata da Liliana Segre e parola scritta a caratteri cubitali nel Museo della Shoah-binario 21- sotto la stazione centrale di Milano, recentemente visitato dalle scolaresche dell’Istituto Comprensivo di Cedegolo. «Bisognava scuotere l’opinione pubblica – affermava Enrichetta Comincioli ex deportata del campo di concentramento di Ravensbruck – sconfiggere l’indifferenza, perché la questione dello Sterminio non era una questione solo mia, individuale, o dei soli deportati: era qualcosa che riguardava l’intera umanità [...] Non erano invisibili le tradotte che partivano dalle stazioni italiane; perché nessuno ha fermato quei treni?». Il racconto di Giovanni Noferi rappresenta una risposta forte, decisa, indiscutibile perché è “testimonianza personale” portata a prova inoppugnabile della verità. È una scelta di vita, segnata da prove indicibili, e per questo motivo a lungo taciute perché ritenute insostenibili, che deriva dall’imperativo morale di “dare testimonianza di ciò che veramente è accaduto”, affinchè non accada più. “Noi queste cose non le sappiamo” si continua ancora a ripetere, quasi a titolo di giustificazione da parte di molti, forse di troppi. Qualche volta potrebbe anche essere accettata, di fronte agli attuali comportamenti farisaici, o ambigui, o politicamente opportunisti , quando non addirittura negazionisti, che trovano sostegno concreto, come nella scoperta dell’Armadio della vergogna: il giornalista e scrittore Franco Giustolisi, nel 1996, svela l’esistenza di un archivio segreto, negli uffici centrali della giustizia militare, sulle stragi nazifasciste in Italia dal 1943 al 1945 che riguarda migliaia di morti. Contiene le indagini, alcune pronte per i di
battimenti, tutte frenate negli anni Quaranta e poi sepolte con un provvedimento illegale di archiviazione nel 1960. Solo nel 2014 verrà pronunciata una sentenza di condanna a conclusione di una ventina di dibattimenti, mentre l’archivio conteneva centinaia di indagini; di tutti i condannati nei processi usciti dall’Armadio, ne andrà in carcere solo uno. La risposta degli alunni di fronte alla personale testimonianza dei protagonisti costituisce la prova più significativa circa la necessità di proseguire nell’iniziativa editoriale in corso ormai da cinque anni da parte del Museo della Resistenza. Dopo l’incontro della partigiana Rosi Romelli, nel 2016, con gli alunni del C.F.P. di Ome, essi hanno scritto le loro impressioni; ne riporto una, ad esempio di tutte: “Grazie Rosi per la sua testimonianza… mi ha aiutato tanto a capire l’importanza che spesso sottovalutiamo della nostra libertà, che dovremmo impegnarci a difendere ogni giorno. Ogni parola, ogni racconto che ha condiviso con noi è stato un vero e proprio viaggio nella sua storia personale, ma anche nel Paese; abbiamo capito il ruolo importante dei partigiani. Come lei ha ripetuto spesso, siamo noi giovani il futuro… dobbiamo conquistare noi questa essenziale libertà che molte volte diamo per scontata. La saluto con affetto. Giada”. Grazie anche a Giovanni, testimone coraggioso e convinto, che ha adempiuto con limpida coscienza al suo dovere: spargere con abbondanza il seme della verità nella terra delle giovani generazioni, confidando nel raccolto altrettanto abbondante in comportamenti ed azioni di questi cittadini.

Guerino Ramponi   Presidente del Museo delle Resistenza di Valsaviore