Partigiani sovietici nella Resistenza bresciana

VALCAMONICA
L’arrivo in brigata dei primi partigiani russi

In Valcamonica è documentata la presenza di ex soldati dell’ Armata rossa al servizio dell’esercito di occupazione tedesca in almeno due località: nella ferriera di Berzo Demo e presso l’Elettrografite di Forno Allione (Malonno), stabilimenti distanti fra loro poco meno di 6 km. In riferimento a questo secondo sito, così scrive lo storico Mimmo Franzinelli nel volume Baraonda, p. 103: A Forno Allione i tedeschi avevano installato, a fianco dello stabilimento Elettrografite, un autoparco per la riparazione di veicoli (soprattutto camion), dove lavoravano alcuni prigionieri di nazionalità sovietica.
In relazione alla situazione di Berzo Demo, anticipando alcune vicende storiche correlate all’operatività dei partigiani russi in Valcamonica, riportiamo la preziosa testimonianza del garibaldino Virginio (Gino) Boldini, all’epoca capo della polizia partigiana della 54ª brigata Garibaldi, pubblicata dal giornalista Enrico Giustacchini sul Corriere della Sera del 24.04.2012: Questa è la storia, straordinaria e quasi dimenticata, di un gruppo di soldati dell’Armata Rossa che scelsero di combattere per la nostra libertà sulle montagne della Valsaviore. A raccontarcela è chi li raccolse tra le fila della Resistenza e ne guidò l’operato: Virginio Boldini, il leggendario «comandante Gino». «Tutto cominciò nell’aprile del ’44. La ferriera di Berzo Demo era presidiata dai nazisti. Tra di essi, c’erano due fratelli armeni che erano stati fatti prigionieri e che, per aver salva la vita, avevano accettato di collaborare. Il direttore dello stabilimento, l’ingegner Magrini, il quale era antifascista, mi avvertì che i due avevano manifestato l’intenzione di unirsi ai partigiani. Fui io ad organizzare la loro fuga». Fu così che Mkrtic e Bagrad Dastoian entrarono tra i ranghi della 54ª Brigata Garibaldi, con i nomi di battaglia di «Miscia» e «Bago». Nei mesi successivi, altri soldati sovietici, in maggioranza armeni, seguono il loro esempio. In tutto, saranno diciotto. Miscia era il leader: affidabile, valoroso, di grande esperienza in ambito militare. Ma un po’ tutti si distinguevano per una particolare attitudine al combattimento, acquisita durante il servizio nell’Armata Rossa. Cosicché, molte delle missioni più delicate venivano affidate a loro. «Anche umanamente erano persone meravigliose – sottolinea Boldini. – Limpide, sincere. Indimenticabili». Poi, arriva quel tragico 9 dicembre. «C’era la neve, tanta neve – ricorda il comandante Gino-. Avevamo tenuto una riunione a Ponte di Valsaviore. Al ritorno, ci separiamo. Miscia e altri cinque compagni si imbattono in una spia fascista e la catturano. A salvarla dalla fucilazione, è proprio Miscia. Il prigioniero è giovanissimo, non ha ancora compiuto i sedici anni. ‘N pütì . Come si fa a uccidere un bambino? Miscia gli dà un calcio nel sedere e lo manda via». Un gesto di generosità pagato a caro prezzo. Il ragazzo, infatti, corre ad avvertire il comando dei repubblichini. Tedeschi e fascisti circondano il fienile in località Baulè dove il gruppetto ha trovato rifugio. Lo scontro è violento. Tre patrioti vengono presi, uno è colpito a morte. A resistere, rimangono Miscia e Zimmerwald Martinelli, un italo-francese che già si era distinto nella guerra di Spagna. «Quando i due capiscono che non c’è più niente da fare – continua Boldini, – scelgono di suicidarsi per non cadere in mano nemica. Zimmerwald, però, non ha la forza di premere il grilletto e chiede a Miscia di farlo per lui. Miscia gli spara, poi rivolge l’arma contro se stesso. Qualche anno dopo, quel pütì che li aveva traditi, pentito e distrutto dal rimorso, deciderà di entrare in convento». C’è un altro armeno, tra le vittime partigiane in Valsaviore. Il suo nome di battaglia era Paolo, di cognome faceva Akeer e proveniva dalla città di Kharkov. Fu ucciso a Sellero durante l’azione che aveva portato alla morte del capo organizzativo dei fascisti della zona. Un’azione che – come scrive pure Mimmo Franzinelli nel libro «La baraonda. Socialismo, fascismo e Resistenza in Valsaviore», edito da Grafo – fu affidata a una squadra composta per intero da sovietici. «Anche Paolo era bravo e coraggioso – racconta Gino. – Purtroppo, quella volta ebbe davvero sfortuna. I nostri, a missione conclusa, si stavano allontanando, quando il figlio della vittima, che noi chiamavamo il Gobbino, dalla finestra di un solaio sparò una raffica di mitra, colpendo Paolo alla schiena e ammazzandolo. Era il 17 dicembre, otto giorni dopo che Miscia ci aveva lasciato». Si velano al ricordo gli occhi del vecchio comandante. Pare, a lui, che tutto sia successo ieri, e che lugubremente brilli sulla neve il sangue versato da quei ragazzi venuti da tanto lontano e che aveva sentito così vicini al suo cuore. Dopo la Liberazione, i partigiani dell’Armata Rossa tornano in patria. Uno di loro, Dimitrij Kulakovu detto Mitri, ferito al costato in combattimento, otterrà una pensione grazie a Boldini, che farà giungere la propria testimonianza alle autorità sovietiche. Va precisato che, nell’Urss di Stalin, Mitri e quelli come lui erano considerati degli eroi di serie B, colpevoli di aver accettato, sia pure per necessità e per breve tempo, di vestire la divisa nazista. Una macchia che, nella retorica dell’epoca, non poteva essere cancellata del tutto nemmeno dai successivi atti di valore. Bisognerà attendere la svolta gorbacioviana per una piena riabilitazione, che culminerà con l’apertura a Mosca della «Casa del partigiano italiano». Virginio Boldini fu tra gli invitati all’inaugurazione, e riabbracciò, festeggiatissimo, i compagni di mille battaglie sulle montagne della Valsaviore.
In riferimento all’arrivo dei primi partigiani russi in Valcamonica, collocato temporalmente tra il mese di gennaio e la prima metà d’aprile 1944, nel libro autobiografico l’Gino. La Resistenza in Valsaviore, a pp. 69-71, Gino Boldini ricostruisce i dettagli della fuga dallo stabilimento di Forno d’Allione dei due fratelli armeni Däshetojan, del loro ingresso in brigata e della positiva ricaduta militare sulla formazione garibaldina: Nuovi giovani si uniscono quindi alla brigata. Ragazzi camuni, ex soldati meridionali. Pure alcuni russi. Nella maggior parte avevano disertato da Brescia il 5 dicembre del 1943 e inizialmente avevano girovagato nelle montagne poste a cavallo tra Valtrompia e Valcamonica. Alcuni erano rimasti ancora nei reparti tedeschi, pronti a disertare alla prima occasione, perché ritenevano fosse ormai vicina la fine della guerra o perché non erano più disponibili ad essere impiegati in funzione antipartigiana; o magari per cercare di riscattarsi agli occhi dell’Unione Sovietica, la patria nella quale difficilmente sarebbero potuti rientrare se sospettati di collaborazionismo coi nazisti. Gino, sono i primi giorni di aprile del 1944 riceve la comunicazione che Guglielmo Parolari, simpatizzante antifascista, desidera incontrarlo per una preziosa informazione. Gino scende quindi furtivamente a Monte di Berzo Demo e lo incontra. Il tema riguarda alcuni russi e un polacco, prigionieri dei tedeschi a Forno d’Allione. Il passaparola delle loro intenzioni è giudicato affidabile. Avevano infatti confidato all’ing. Magrini – dirigente della fabbrica – la propria intenzione di far parte della brigata garibaldina: da qui l’informazione al Parolari e, ora, a Gino. Questi torna al proprio Comando di brigata ed espone la situazione, ricevendo l’assenso di Nino e dei propri compagni (…) Il passaparola si riattiva: è lì, all’imbocco del sentiero, che il giorno 10 aprile, alle 11 dei sera, potrà avvenire il contatto (…) E’ il lunedì di Pasqua (…) Gino è nascosto nella boscaglia (…) Puntuali si presentano all’appuntamento i fratelli di nazionalità armena Däshetojan Mikkail (subito soprannominato Miscia) e il fratello Däshetojan Bagrad (detto Bago), insieme a Ivan il polacco. Gino li guida nella stessa nottata al gruppo della brigata (…) Sono nuovi partigiani, già combattenti nell’esercito regolare russo, e quindi addestrati secondo canoni che si riveleranno preziosi nei mesi seguenti per rendere operativamente efficiente la brigata.

Evoluzione del partigianato sovietico in Valsaviore

Dopo i primi contatti intervallivi intercorsi a metà maggio tra il gruppo di Nicola Pankov e i garibaldini della Valcamonica guidati da Nino Parisi e Gino Boldini, giunti in Valtrompia per procurarsi 6 mitra con le relative munizioni, e la successiva frattura avvenuta interna al gruppo autonomo dei russi in Valtrompia, molti di costoro trasmigrano in Valcamonica, per aggregarsi alla 54ª brigata Garibaldi.
In giugno assommano a 29 i partigiani sovietici presenti nella brigata di Valsaviore, “tutti dotati di armi a differenza del resto dei garibaldini”, specifica Marcello Zane a p. 124, che prosegue citando le preoccupate osservazioni del comandante Parisi: “Si ritrovano presso la malga di località Curnaséla quasi fossero un distaccamento a sé, mancano di disciplina, si lamenta Nino, preferiscono preservare la propria autonomia e rischiano di creare confusione e disturbo”.
Tuttavia, col progredire dell’estate, i rapporti fra le diverse etnie migliorano, come viene confermato a p. 228 del libro Baraonda: “Nei mesi successivi i rapporti tra gli stranieri e i locali migliorarono e in alcuni casi divennero persino cordiali”.
Indubbiamente a ciò contribuisce la progressione degli attacchi contro i fascisti, che inizialmente non provocano né vittime né feriti tra le file dei partigiani russi. Ma con l’inoltrarsi dell’autunno e l’arrivo dell’inverno la morte comincia a mietere alcuni di questi valorosi, aumentati di numero anche in seguito alla liberazione di 12 russi dalla fabbrica di Forno Allione realizzata il 24 agosto da parte del nucleo garibaldino operante all’interno.
Per primo, l‟11 novembre cade Michele Corbut, il 9 dicembre Michele Däshetojan, considerato il capo del gruppo russo e che col nome di, Miscia che era stato il primo ad essere inserito in brigata. Per ultimo, dieci giorni dopo, cade Paolo Aceef, colpito da una mitragliata sparatagli alle spalle. Sapevano questi partigiani di correre rischi, ma queste tre fini drammatiche spiegano più d’altri drammatici episodi la durezza della lotta partigiana e la crudeltà dei dominatori fascisti.

La morte di Miscia (09.12.1944)

All’alba del 9 dicembre una cinquantina di fascisti e di tedeschi provenienti dal distaccamento di Breno delle Ss italiane, guidati sul posto da Lodovico Tosini – un quindicenne di Grevo in servizio nei reparti della Ss italiana e che, catturato mentre spiava i ribelli era stato rilasciato a causa della sua giovanissima età – circondano la baita di Baulé, presso Ponte, dove dormono sei partigiani della 54a tornati da una riunione in Valsaviore. Il ventenne barese Donato Della Porta, comandante del battaglione di Prà di Prà di Valle di Saviore, morirà in seguito alle gravi ferite riportate nello scontro a fuoco, mentre l‟italo-francese Zimmerwald (Giorgio) Martinelli e l’armeno russo Michele Däshetojan, detto Miscia, decideranno di morire per non finire bruciati vivi tra le fiamme appiccate dagli assalitori. Gli altri tre partigiani – il francese Andrè Jarani (Pipo) nato a Grenoble nel 1917, Franco Ricchiulli di Sulmona e Bruno Trini – si arrenderanno e saranno imprigionati. La terribile vicenda è un doloroso esempio del soggiogamento mentale e della feroce violenza omicida di un regime dittatoriale che qui, come altrove, è riuscito a scardinare l’umanità dal cuore di un ragazzo – poi redentosi sulla via del sacro – facendone una marionetta manovrabile dai peggiori maestri. La sequenza del tragico evento è narrata nel libro Fazzoletti rossi, pp. 70-71. Se novembre è un mese di pesanti perdite per la 53ª [brigata Garibaldi], dicembre lo è per la 54ª. Il giorno 9 cadono in combattimento tre fra i più valorosi partigiani della 54ª: Giorgio (Martinelli Zimmerwald), Natù (Donato Della Porta) e Misha (Merkertic) e tutto per un gesto umanitario di Misha. Il giorno 7 a Grevo (in Val Saviore) Natù, comandante il Btg. Giorgio, già Commissario Politico del Btg. «Val Malga» e facente funzioni di Vice Commissario politico di Brigata dopo il trasferimento di Leo [Leonardo Bogarelli, ndr]a Brescia, e Misha, Commissario Politico del Btg comandato da Natù, catturano un fasci stello del paese arruolato nelle SS, tale Tonini Lodovico. Lo portano nel paese di valle e qui il giorno dopo (8 dicembre) in seguito alle insistenze di Misha viene liberato. Il partigiano sovietico sostiene che il giovanissimo SS è un bambino (lui pampino – dice). Gli altri gli danno retta e per tutti il caso è chiuso, ma non per l’SS che corre dai suoi camerati a raccontare la sua avventura e metterli in allarme. Scatta subito l’operazione antiribelle ed è proprio lo stesso Tonini a guidare una cinquantina di nazifascisti su per i villaggi della Val Saviore. La sera di quell’8 dicembre i tre partigiani più un quarto, Trini Bruno, di ritorno da una riunione di Comandanti e Commissari tenutasi a Cevo, incontrano nel villaggio di Ponte il partigiano Franco Ricciulli e il partigiano francese André Jarani I sei, non sospettando neppur lontanamente il pericolo che incombe su di loro si attardano nel villaggio e, contravvenendo all’ordine ricevuto di rientrare alla sede del loto Battaglione posta nelle baite sopra Valle, si fermano nei prati di Baulé, posti più sotto, e in una baita che è base di transito per i reparti Garibaldini si fermano per passarvi la notte. Fatale errore? I settecento metri che dividono Baulé dalla sede del Battaglione Garibaldino sono il breve tratto che decide della sorte dei sei. All’alba del giorno 9 la baita è circondata dai nazifascisti. Si accende il combattimento. Dopo due ore di fuoco e ripetute intimazioni di resa e promesse di dar salva la vita, due Garibaldini decidono di arrendersi. Sono il francese Jarani e Franco Ricchiulli. Si ricomincia a sparare. Dopo un’altra ora si arrendono Bruno Trini e Donato Della Porta. Nella baita non rimangono che Misha e Martinelli che ricominciano a sparare. Dopo mezz’ora Natù (Della Porta) chiede di rientrare nella baita per convincere i compagni ad arrendersi – dice lui – ma è pensabile che voglia riprendere il suo posto. Il fatto è che giunto presso la porta della baita cade ucciso fra un rinnovato incrociarsi di raffiche. Ormai il cerchio si stringe sempre di più e i fascisti riescono a dar fuoco alla baita. Misha e Giorgio muoiono così tra le fiamme in una ultima disperata difesa. I Garibaldini da Cevo e dalla sede del Battaglione sopra Valle sentono sparare, ma credono a una delle tante puntate fasciste a vuoto, quando i neri, magari per farsi coraggio, sparano. Il maestro Bonomelli da Ponte, come ogni mattina, si reca a valle per tenervi lezione, ed è proprio lui che porta ai partigiani la notizia che ai prati di Baulé ci sono dei partigiani morti. Il comandante Nino manda subito Gino (Virginio Boldini), comandante del Nucleo di polizia partigiana, a bloccare la strada ai fascisti che stanno scendendo con i tre prigionieri, ma data, la sproporzione numerica, i fascisti riescono a sganciarsi in tutta fretta e con perdite non rilevanti.
Sulla figura dell’armeno Miscia, nome di battaglia del capo dei partigiani sovietici di Valsaviore, riproduciamo la testimonianza tratta dal Memoriale dell‟amico Gino Boldini, riportata a p. 230 di Baraonda, vol I e il profilo biografico riportato a p. 213 di Baraonda, vol II, unitamente al commento dell‟autore: Michele era conosciuto e stimato dalla popolazione di Valsaviore (stava con noi da più di sei mesi) e, come comandante, era obbedito da tutti i russi, francesi, polacchi. Sapeva infatti organizzare sia i vettovagliamenti sia i trasferimenti da una zona all’altra. Era amato in particolare dai giovanissimi come Sola Francesco (fratello di Pitto), Gino e Matteo Galbassini, ma soprattutto era obbedito anche dai più indisciplinati. Morto lui, io presi il suo posto in quanto ero benvoluto da loro, che mi obbedivano, salvo casi rari, come quello di Sandro (originario di Mosca) che rubò un orologio a un civile di Forno Allione, ma riuscii a convincerlo di venire con me per restituirlo.
L’armeno Makartic (Miscia) Dastojan, nato a Erevan nel 1914, era una figura di spicco del gruppo dei “russi” aggregato alla 54ª Brigata Garibaldi. Viene ricordato dai suoi compagni di lotta per la perizia nell’uso delle armi e per la generosità d’animo, sentimento che nel dicembre 1944 gli costò la vita. Fu lui, infatti, a sottrarre il giovane della SS Lodovico Tosini alla fucilazione, rimettendolo in libertà in considerazione della sua età, non immaginando che costui sarebbe corso a segnalare la presenza dei ribelli al più vicino distaccamento fascista. Prigioniero dei tedeschi, fuggì da Forno Allione e raggiunse la 54ª Brigata, nella quale rifulse sempre il suo valoroso comportamento; il perfetto senso di disciplina che lo contro distingueva ed una rara bontà che lo rese ben presto caro a tutti i suoi superiori e compagni. Con lui aveva un fratello che gli sopravvisse. Era con Donato Della Porta il 9 dicembre 1944 e si era fermato a pernottare in un fienile, dopo aver compiuto una difficile e delicata missione. Non si arrese e bruciò con il fienile dov’era ricoverato.

Ricerca storica di Isaia Mensi
Gussago 27 Ottobre 2017